Giorgio Perinetti: «Non sono riuscito a comprendere mia figlia morta di anoressia»

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Giorgio Perinetti è un dirigente sportivo di lungo corso, un veterano che ha attraversato oltre 50 anni di carriera calcistica, assistendo alla profonda evoluzione del mondo del pallone. Dagli inizi subito dopo il diploma di liceo classico, condiviso con futuri personaggi di spicco come De Sica e Verdone, la sua vita è stata un susseguirsi di successi e momenti delicati — come quando gli toccò il compito di comunicare a Maradona la sua squalifica per doping —, presidenti vulcanici e grandi soddisfazioni. Ma anche di profondo dolore, una costante negli ultimi anni della sua vita personale: prima la scomparsa della moglie nel 2015, e poi quella ancora più straziante della figlia Emanuela, portata via dall`anoressia. Una malattia insidiosa per la quale Perinetti non riesce a darsi pace, ma che al contempo ha acceso in lui un campanello d`allarme, spingendolo a dedicarsi alla prevenzione di casi simili.

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Il libro «Quello che non ho visto arrivare»

Parlando del suo libro, «Quello che non ho visto arrivare», dedicato alla figlia, Perinetti confessa la sua iniziale reticenza: «In un primo momento, anche parlando con l`altra mia figlia, Chiara, ero restio. Poi è stato dolorosissimo rivivere tutto, ma in un certo senso mi ha dato sostegno.» L`obiettivo principale è accendere i riflettori sui disturbi alimentari: «Spero di mettere sotto i riflettori il tema dei disturbi alimentari: dopo la scomparsa di mia figlia, il dottore che la curava mi ha raccontato di aver fatto leggere la sua storia ad un`altra paziente. E così ha accettato il ricovero. Questa è stata la mia spinta.»

Una ragazza intelligente, che aveva tutto. Sopravvivere a un figlio è qualcosa di innaturale, perderla in questo modo è stato devastante.

La lotta per la sopravvivenza e il peso del senso di colpa

«Non sono stato fortunato: prima ho perso mia moglie, poi Emanuela. Una ragazza intelligente, che aveva tutto,» racconta con amarezza. La perdita di un figlio è innaturale, e in questo modo è stata devastante. Ringrazia l`altra figlia, Chiara, per la forza che gli ha dato: «Siamo rimasti noi due. Ogni volta che ci incontriamo, si parte con lunghi silenzi. Momenti in cui viviamo intensamente il ricordo delle persone che abbiamo perso.»

Il senso di colpa lo tormenta: «Un genitore di colpe se ne dà mille, si fa migliaia di domande, non riesce a trovare risposte.» Ripensa alle richieste della figlia di fare qualcosa insieme: «Interpretavo questa richiesta come una diminutio per lei, non certo per me. E invece forse erano solo richieste di aiuto. Non l`ho capita, non ho recepito i segnali e questa è la mia più grande disperazione.» Emanuela chiamava ogni mattina, preoccupandosi per lui, aggiornandolo.

Il calcio come rifugio e passione di famiglia

Il calcio è sempre stato il suo aiuto per non pensare nei momenti difficili. «Sia dopo la scomparsa di mia moglie, quando accettai Venezia un mese più tardi, sia dopo quella di mia figlia, tra Avellino e Athletic Palermo, scelto perché volevo chiudere da dove sono partito: ragazzi giovani a cui regalare un sogno. È necessario per tenere occupata la testa.»

Anche Emanuela era interessata al calcio. «Da bambina, con la mamma veniva a vedere la partita. Senza parlare mi guardava con gli occhi imploranti e allora le chiedevo se volesse tornare in pullman a Trigoria col papà o a casa con la mamma. Si accomodava sempre in braccio ad Aldair.»

Gli inizi nel calcio e gli incontri memorabili

I suoi anni di adolescenza sono stati condivisi con personaggi che sarebbero diventati noti: «Ho fatto il liceo classico con Verdone e De Sica, con Carlo ci sentiamo ancora tutti i giorni.»

L`inizio nel mondo del calcio fu con la Roma, a Ostia. A soli 22 anni era dirigente del settore giovanile e, in occasione del suo compleanno, chiese di sedere accanto a Herrera. Il «Mago» lo chiamò in panchina: «Vamos, veloce, in panchina. Un sogno.»

Al Napoli, Ferlaino gli affidò il compito difficile di comunicare a Maradona la squalifica per cocaina. «Andai a casa sua, gli parlai, Diego si portò una mano sul fianco e disse solo `Non è possibile…`, con una smorfia di dolore fisico sul viso che non dimenticherò mai.»

Carlo Ancelotti e Giorgio Perinetti
Carlo Ancelotti e Giorgio Perinetti

Aneddoti, scoperte e lezioni di vita

Un aneddoto divertente dal suo periodo alla Juventus: durante una partita di Champions League contro l`Olympiacos, con la Juve in difficoltà, Ancelotti voleva fare un cambio. Perinetti, intento a pasticciare con la lavagnetta, ritardò l`ingresso di Fonseca per Conte. Conte, nel frattempo, segnò. «Mi giro verso Ancelotti: `Ah Carlé, t’avevo detto d’aspettà!`. Ebbi involontariamente ragione.»

Fu Perinetti a lanciare Antonio Conte come allenatore, considerandolo un predestinato per il suo carattere imponente anche tra i campioni. Ma la sua più grande scoperta come tecnico fu Sven-Göran Eriksson, che portò in Italia per la Roma dopo la finale di Champions persa nel 1984. «Tutti si ricordano dei suoi successi con la Lazio, ma in Italia lo portai io,» sottolinea.

Gioie profonde e delusioni formative

La sua più grande soddisfazione e la peggiore delusione sono entrambe legate a Eriksson: «La Coppa Italia vinta con lui sulla panchina della Roma è stata la gioia più profonda.» La delusione, invece, fu «aver lasciato uno scudetto alla Juventus a causa di una sconfitta in casa contro il Lecce. Ero giovanissimo, vincere un campionato a 34 anni… Oggi non avrei mai perso quella partita. Ma si tratta di una sconfitta che mi ha insegnato più di ogni vittoria.»

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